Siamo d'accordo.
Non posso non essere d'accordo sulle linee di dottrina sociale e sulle indicazioni evangeliche contenute nel documento -bellissimo- della Diocesi di Prato sull'immigrazione.
Ma sono anche assolutamente convinto che il vero problema, almeno a Prato, non sia questo.
Da decenni a Prato l'immigrazione è vissuta come un fatto normalissimo.
Ad eccezione dei primi anni cinquanta, quando la popolazione era ancora legata a pregiudizi di ogni genere, non possiamo dire che a Prato il fenomeno dell'immigrazione abbia registrato casi di intolleranza o di pregiudizio.
Da cinquant'anni la cittadinanza pratese è multietnica.
I problemi di Prato oggi sono ben diversi da quelli evocati nel documento, e poco o nulla hanno a che fare con la dottrina dell'accoglienza. Sono problemi di criminalità. Una criminalità locale che si somma, e che a volte s'intreccia, con quella di parte della popolazione immigrata.
Per essere chiaro, e con tutto il rispetto, l'accoglienza, a mio parere, non c'entra un fico secco con i problemi che la città ha di fronte a sé oggi.
Oggi a Prato è vera e propria emergenza.
Quando sarà fatta pulizia della criminalità locale e d'importazione, ma solo allora, sarà possibile affrontare -e ritengo che non sarà un problema, tutto il discorso sotto un profilo che renda possibile ogni sviluppo in senso positivo. Ma sino al giorno in cui le bande di malfattori, lenoni, trafficanti di droga, strozzini, evasori totali d'ogni tassa, affittacamere senza scrupoli, immobiliaristi disonesti, capimafia cinesi e non, pratesi e non, continueranno a spadroneggiare indisturbati nel territorio, parlare di accoglienza equivarrà inevitabilmente a parlare di connivenza e complicità.
Occorre oggi essere inflessibili e rigorosi.
Non si tratta di giustizialismo, ma di giustizia. E la giustizia, mi preme sottolinearlo in questo contesto, è una delle quattro virtù cardinali che, insieme con la fortezza, la temperanza e prudenza, formano l'ossatura etico-morale di ogni persona perbene, cristiana o no.
"Icché c'entr'icculo..."
Mi torna a mente un vecchio apologo, che circolava nella piana quando ero ancora un bambino. Una volta c'era l'usanza, specie nelle chiese di campagna, di celebrare le cosiddette "quarant'ore". Le "quarant'ore" erano un ciclo di conferenze, o piuttosto di prediche, fatte generalmente da un frate (cappuccino, conventuale, domenicano etc.) che veniva da fuori, su invito del pievano. Qualcuno di questi frati "vagantes" era un po' troppo, come si dice dalle nostri parti, "svelto", e capitava talora che allungasse un po' troppo le mani sulle rotondità di qualche sposa campagnola bene in carne. Orbene si narra che una di queste spose, fatta oggetto di tali attenzioni un po' troppo laiche e audaci da parte del religioso, si rivolgesse inviperita al frate dicendogli "scusi eh, ma icché c'entr'icculo con le quarant'ore?". Adesso possiamo dire che c'entra proprio quanto c'entra la cultura dell'accoglienza con i problemi attuali dell'immigrazione a Prato...
Forse varrebbe la pena...
Forse varrebbe la pena, da cattolici, di cercare di condividere il dramma di quanti, pratesi e immigrati, patiscono le conseguenze della gestione di questo fenomeno che sino ad oggi è stata, a dir poco, scellerata. E per farlo seriamente bisogna "incarnarsi" nel problema, come ha fatto nostro Signore, e non continuare a vederlo come se fosse un fatto esterno. I cattolici, specie le associazioni come la Caritas e la San Vincenzo, solo per citare le prime due che mi vengono in mente, già hanno fatto e stanno facendo tanto per rendere più sopportabile le pene degli immigrati. Adesso che il Comune di Prato sta cercando di rendere meno insopportabile la vita dei pratesi che vogliamo fare, mettere i bastoni fra le ruote? Questo, davvero, mi par proprio poco cristiano...
Giacomo Fiaschi
Non posso non essere d'accordo sulle linee di dottrina sociale e sulle indicazioni evangeliche contenute nel documento -bellissimo- della Diocesi di Prato sull'immigrazione.
Ma sono anche assolutamente convinto che il vero problema, almeno a Prato, non sia questo.
Da decenni a Prato l'immigrazione è vissuta come un fatto normalissimo.
Ad eccezione dei primi anni cinquanta, quando la popolazione era ancora legata a pregiudizi di ogni genere, non possiamo dire che a Prato il fenomeno dell'immigrazione abbia registrato casi di intolleranza o di pregiudizio.
Da cinquant'anni la cittadinanza pratese è multietnica.
I problemi di Prato oggi sono ben diversi da quelli evocati nel documento, e poco o nulla hanno a che fare con la dottrina dell'accoglienza. Sono problemi di criminalità. Una criminalità locale che si somma, e che a volte s'intreccia, con quella di parte della popolazione immigrata.
Per essere chiaro, e con tutto il rispetto, l'accoglienza, a mio parere, non c'entra un fico secco con i problemi che la città ha di fronte a sé oggi.
Oggi a Prato è vera e propria emergenza.
Quando sarà fatta pulizia della criminalità locale e d'importazione, ma solo allora, sarà possibile affrontare -e ritengo che non sarà un problema, tutto il discorso sotto un profilo che renda possibile ogni sviluppo in senso positivo. Ma sino al giorno in cui le bande di malfattori, lenoni, trafficanti di droga, strozzini, evasori totali d'ogni tassa, affittacamere senza scrupoli, immobiliaristi disonesti, capimafia cinesi e non, pratesi e non, continueranno a spadroneggiare indisturbati nel territorio, parlare di accoglienza equivarrà inevitabilmente a parlare di connivenza e complicità.
Occorre oggi essere inflessibili e rigorosi.
Non si tratta di giustizialismo, ma di giustizia. E la giustizia, mi preme sottolinearlo in questo contesto, è una delle quattro virtù cardinali che, insieme con la fortezza, la temperanza e prudenza, formano l'ossatura etico-morale di ogni persona perbene, cristiana o no.
"Icché c'entr'icculo..."
Mi torna a mente un vecchio apologo, che circolava nella piana quando ero ancora un bambino. Una volta c'era l'usanza, specie nelle chiese di campagna, di celebrare le cosiddette "quarant'ore". Le "quarant'ore" erano un ciclo di conferenze, o piuttosto di prediche, fatte generalmente da un frate (cappuccino, conventuale, domenicano etc.) che veniva da fuori, su invito del pievano. Qualcuno di questi frati "vagantes" era un po' troppo, come si dice dalle nostri parti, "svelto", e capitava talora che allungasse un po' troppo le mani sulle rotondità di qualche sposa campagnola bene in carne. Orbene si narra che una di queste spose, fatta oggetto di tali attenzioni un po' troppo laiche e audaci da parte del religioso, si rivolgesse inviperita al frate dicendogli "scusi eh, ma icché c'entr'icculo con le quarant'ore?". Adesso possiamo dire che c'entra proprio quanto c'entra la cultura dell'accoglienza con i problemi attuali dell'immigrazione a Prato...
Forse varrebbe la pena...
Forse varrebbe la pena, da cattolici, di cercare di condividere il dramma di quanti, pratesi e immigrati, patiscono le conseguenze della gestione di questo fenomeno che sino ad oggi è stata, a dir poco, scellerata. E per farlo seriamente bisogna "incarnarsi" nel problema, come ha fatto nostro Signore, e non continuare a vederlo come se fosse un fatto esterno. I cattolici, specie le associazioni come la Caritas e la San Vincenzo, solo per citare le prime due che mi vengono in mente, già hanno fatto e stanno facendo tanto per rendere più sopportabile le pene degli immigrati. Adesso che il Comune di Prato sta cercando di rendere meno insopportabile la vita dei pratesi che vogliamo fare, mettere i bastoni fra le ruote? Questo, davvero, mi par proprio poco cristiano...
Giacomo Fiaschi
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