martedì 2 giugno 2009

Legge Regionale Toscana "sui clandestini"


Filippo Boretti UDC

Non è nella condivisione di alcuni articoli che si può plaudire una legge, ma nella visione di insieme che questa esprime; in quella visione culturale ed etica, nonché giuridica, che fonda ogni singola disposizione.

La costituzione italiana fonda lo Stato anche sul principio di "sussidiarietà" e questa legge aggredisce questo principio arrogando ad una Regione il diritto di contrapporre ad una legge del Parlamento italiano, un 'altra legge dello "Stato" (sic). Con questa legge regionale non c'è proprio da plaudire, se non entrando nel merito delle singole disposizioni - cosa che ben potremmo fare non mancandoci né sensibilità sociale, né una cultura di riferimento attenta all'accoglienza e alla solidarietà rivolta alla persona - perché si nascondono le intenzioni vere dentro un arabesco che vuol far passare come "naturale" una visione giuridica delle competenze regionali ed etica delle "pluriculture" che non hanno radici se non in una visione relativista e laicista dello Stato italiano.

Fra una società che accoglie, fondando le proprie leggi sull'interculturalità, promulgate dallo Stato, ed una legge che crea una pluriculturalità giuridica di riferimento per plasmare la società, corre la differenza fra apprezzare alcune disposizioni della legge regionale approvata sull'immigrazione e criticare la visione giuridica ed etico-culturale sottesa alla medesima legge.

Non si tratta di riconoscere se l’Italia si è formata sui “numeri arabi”, o sugli scambi culturali del passato, cosa ovvia e riconosciuta univocamente, ma su quali basi giuridiche, etiche e quindi culturali vogliamo fondare l'accoglienza e la solidarietà qui, da noi, e non solo in Toscana, oggi.

La Toscana felix ha sbagliato due volte, primo perché “politicamente” si è arrogata il diritto – su questioni di principio e valoriali – di legiferare in “competizione” con il parlamento “italiano” – caduta di stile, ma soprattutto, torno a ripetere, caduta “politica” – visto che al reato di “clandestinità” si è voluto rispondere con una “solidarietà” indistinta; secondo, perché culturalmente questa legge impone una visione etica completamente distorta dei principi e dei valori di riferimento presenti nel tessuto sociale italiano, anzi crea “per legge” una cultura di “riferimento” quella del “pluriculturalismo”, imponendo una “relativistica indifferenza” dell’accettazione delle “culture” presenti sul suolo “italico”.

La storia insegna che l’integrazione, oltre che a suon di sganassoni, è avvenuta anche perché uno – chi accoglie – si è reso forte rispetto a chi è arrivato, ed ha saputo in questo modo “accogliere” anche le innovazioni che la cultura ospitata ha apportato a quella ospitante, in un vicendevole scambio per il bene comune (come è avvenuto coi “numeri arabi”, ad esempio, ma senza rinunciare alla propria “cultura di riferimento”, quella della cristianità medievale).

In questa legge non c’è traccia di riferimenti, di agganci ad una cultura “fondante” di chi accoglie. Che l’Italia l’abbia persa grazie al secolo breve? Che il progresso soico-economico prima e quello tecnologico dopo ci abbiano fatto perdere le nostre “radici” per un progressivo "sradicamento" del progresso in vista di una società "pluriculturale" fluttuante come su di un mare?

Questa legge è “indifferente”, si pone sul piano delle culture come se l’Italia non ci fosse, né quella della “Lega”, né quella della storia: “qualsiasi” cultura vale “una” cultura; “impone” una visione laicista dell’accoglienza, più che laica, e relativista più che “multiculturale”; evidenzia la povertà etico-culturale di una parte dei politici afferenti all’attuale PD, ormai privi di ideologie di riferimento, i quali rifiutando di riferirsi alla "cristianità" - così come ad una cultura che fonda l'Italia - cercano una "nuova" cultura di riferimento – non più marxista ed atea – ma in un “meccanicistico” pluriculturalismo da imporre ad un’Italia tutto sommato ancora saldamente ancorata a valori, tradizioni e regole proprie.

Ancora una volta una Regione dovrebbe fare da battistrada per una nuova visione etico-culturale imposta da una classe dirigente - e di marca politica - senza l'ausilio delle "opposizioni" e in competizione con il "parlamento" italiano... Peggio, la politica impone, una volta ancora, una "cultura" di riferimento per una società ormai ritenuta priva di riferimenti, quindi adatta ad accettare la "pluriculturalità" come principio fondante...

Lo scivolone peggiore è però – nuovamente – dei “cattolici democratici” che, senza aver più coscienza di ciò che approvano, lasciano il fronte sguarnito ad un potere arrogante che risponde a Roma – per legge – e all’Italia dicendo che la Toscana è la più brava, inventandosi una “cultura” inesistente di riferimento laicista e relativista senza più "cristianità".

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