riceviamo e pubblichiamo:
Giro per le città pre-marxiste della mia regione, la Toscana.
Attraverso il centro di Siena, scopro la città medioevale con le sue meraviglie, una trama splendida, ricca di immagini, di visioni che si aprono all’improvviso. E’ un’esperienza straordinaria.
Entro in Firenze, nella città del Rinascimento, dalla piazza della Signoria arrivo ai lungarni e resto colpito dalla magnificenza e dallo splendore di spazi e di edifici ineguagliabili.
Mi reco nel centro di Pisa e di Volterra, di Pistoia e di Pescia, di Lucca e di Pietrasanta, vado in altre città della toscana e dovunque la parte più antica mi appare eccezionale. Mi spingo un po’ all’esterno della parte più antica, percorro strade costruite nei secoli successivi, fino a ritrovarmi nelle città dell’ ‘800 e continuo a stupirmi per le proporzioni e l’armonia da esse espresse. A Firenze trovo grandi viali alberati, salgo per il viale Michelangiolo e arrivo al piazzale, tutti spazi strepitosi. Mi sposto in altre città, a Montecatini, a Viareggio, e anche qui la città dell’ ‘800 è elegante e ben strutturata, con ampi viali, grandi parchi, fascinose viste prospettiche. Ad Arezzo, che è la mia città, c’è la piazza ottocentesca con le quattro strade che segna con chiarezza ed efficacia la nuova struttura urbana in funzione della sopraggiunta ferrovia.
Ai margini delle sistemazioni ottocentesche, entrando nella parte costruita nei primi decenni del ‘900, trovo ancora una città di qualità. A Firenze, la piazza della Stazione mi appare uno spazio perfetto. Continuando a girare per la toscana, gli interventi degli anni ’30 di Livorno, o il viale tra il centro e la stazione di Prato, il viale lungomare della Versilia, i “giardinetti” di Arezzo che avvolgono il centro storico, pur aggrediti da interventi di anni recenti, si presentano ancora come felici pezzi di città, strutture urbane equilibrate ed armoniose.
Ugualmente, se esco dalla toscana e mi reco in altri luoghi, da Bergamo a Torino, dall’EUR a Latina, dovunque mi compaiono eccellenti parti urbane realizzate nei primi quarant’anni del secolo scorso, siano esse caratterizzate dall’architettura liberty o da quella umbertina, dallo stile novecento o da quello littorio.
Adesso, mi spingo ancora un po’ verso l’esterno ed arrivo nella città costruita dopo il 1945. Mi accorgo subito di essere entrato bruscamente in un luogo diverso, in una città alternativa rispetto a quella percorsa fino ad allora, una città desolata, composta da successioni di casermoni uniformi e squallidi.
Sono entrato nella città marxista.
Per spiegare questa aggettivazione occorre ragguagliare il lettore che negli anni ‘20, Stalin incaricò un gruppo di architetti guidati da Ernst May, di teorizzare la città proletaria derivante dai principi del collettivismo e contrapposta a quella borghese. La teoria si materializzò in un modello di città composta da grossi contenitori dove assemblare la popolazione in spazi strettamente essenziali. Blocchi geometrici a stecche ripetute per rappresentare l’egualitarismo, con le forme irrigidite della prefabbricazione pesante secondo il mito dell’economia di scala, prive di negozi individuali per il rigetto del sistema di mercato, senza alcuna concessione all’estetica considerata pregiudizio borghese, senza elementi di identificazione secondo l’ideologia del collettivismo.
Questi principi furono rigorosamente applicati nei nuovi quartieri dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti.
Ad applicare questi principi in Italia ha provveduto una lobby di urbanisti che, omologatasi al PCI nel primo dopoguerra quando spirava forte il vento dell’ideologia marxista, nell’insipienza delle altre parti politiche, ha preso il potere di questo settore nelle università, nelle istituzioni culturali, nell’editoria, nei rapporti con lo Stato e con gli Enti locali, e da allora ha dominato in modo totalizzante nella teoria e ha avuto il monopolio nella prassi dell’urbanistica a tutti i livelli, nazionale, regionale e comunale.
Così, attraverso i Piani Regolatori e le relative Norme di Attuazione comunali, totalmente gestiti dall’urbanistica dominante, sono stati imposti in Italia i principi del collettivismo, con qualche attenuazione e digressione dovute alle resistenze della realtà economica e sociale, determinando comunque gli squallidi e desolanti risultati delle parti urbane costruite dopo il 1945.
Il modello marxista è stato, invece, rigorosamente applicato nei “Villaggi Popolari”, dove gli urbanisti della sinistra hanno potuto gestire, senza inframmettenze, l’intero processo costruttivo, dalla struttura urbanistica al progetto edilizio, determinando i risultati più infami. Di essi, valga per tutti richiamare lo ZEN di Palermo, progettato da uno dei loro più famosi campioni.
Pier Lodovico Rupi
LA RISPOSTA (riceviamo e pubblichiamo)
Non sarà che la CITTA' MARXISTA evocata dall' autore del saggio breve "La città marxista", è la CITTA' DEL CAPITALE ? a livello economico finanziario, sicuramente. sul piano culturale, disciplinare, anche formale, è vero che l' UNIONE SOVIETICA a metà degli anni venti accetta il modello economico-energetico occidentale, ma la questione è complessissima : c'è una città socialista basata sulla gratuità degli alloggi, sui servizi alle persone ecc. che ha poco a che spartire con la città occidentale, almeno sul piano delle intenzioni.
In ogni caso, pur dovendosi accettare la critica all' UNione sovietica per aver accettato il modello eurocentrico e capitalistico della città, vale a dire per non aver sviluppato una città altra, mi pare francamente un pò forzato descrivere il passaggio dalla città medioevale e rinascimentale e dalla città della prima industrializzazione (tutte fra loro molto diverse, seppure con alcune permanenze), alla metropoli informatico nucleare inceneritorista, come città marxista.
E' giusto semplificare la complessità, ma bisogna stare attenti a tagliare.
fabrizio bertini
Attraverso il centro di Siena, scopro la città medioevale con le sue meraviglie, una trama splendida, ricca di immagini, di visioni che si aprono all’improvviso. E’ un’esperienza straordinaria.
Entro in Firenze, nella città del Rinascimento, dalla piazza della Signoria arrivo ai lungarni e resto colpito dalla magnificenza e dallo splendore di spazi e di edifici ineguagliabili.
Mi reco nel centro di Pisa e di Volterra, di Pistoia e di Pescia, di Lucca e di Pietrasanta, vado in altre città della toscana e dovunque la parte più antica mi appare eccezionale. Mi spingo un po’ all’esterno della parte più antica, percorro strade costruite nei secoli successivi, fino a ritrovarmi nelle città dell’ ‘800 e continuo a stupirmi per le proporzioni e l’armonia da esse espresse. A Firenze trovo grandi viali alberati, salgo per il viale Michelangiolo e arrivo al piazzale, tutti spazi strepitosi. Mi sposto in altre città, a Montecatini, a Viareggio, e anche qui la città dell’ ‘800 è elegante e ben strutturata, con ampi viali, grandi parchi, fascinose viste prospettiche. Ad Arezzo, che è la mia città, c’è la piazza ottocentesca con le quattro strade che segna con chiarezza ed efficacia la nuova struttura urbana in funzione della sopraggiunta ferrovia.
Ai margini delle sistemazioni ottocentesche, entrando nella parte costruita nei primi decenni del ‘900, trovo ancora una città di qualità. A Firenze, la piazza della Stazione mi appare uno spazio perfetto. Continuando a girare per la toscana, gli interventi degli anni ’30 di Livorno, o il viale tra il centro e la stazione di Prato, il viale lungomare della Versilia, i “giardinetti” di Arezzo che avvolgono il centro storico, pur aggrediti da interventi di anni recenti, si presentano ancora come felici pezzi di città, strutture urbane equilibrate ed armoniose.
Ugualmente, se esco dalla toscana e mi reco in altri luoghi, da Bergamo a Torino, dall’EUR a Latina, dovunque mi compaiono eccellenti parti urbane realizzate nei primi quarant’anni del secolo scorso, siano esse caratterizzate dall’architettura liberty o da quella umbertina, dallo stile novecento o da quello littorio.
Adesso, mi spingo ancora un po’ verso l’esterno ed arrivo nella città costruita dopo il 1945. Mi accorgo subito di essere entrato bruscamente in un luogo diverso, in una città alternativa rispetto a quella percorsa fino ad allora, una città desolata, composta da successioni di casermoni uniformi e squallidi.
Sono entrato nella città marxista.
Per spiegare questa aggettivazione occorre ragguagliare il lettore che negli anni ‘20, Stalin incaricò un gruppo di architetti guidati da Ernst May, di teorizzare la città proletaria derivante dai principi del collettivismo e contrapposta a quella borghese. La teoria si materializzò in un modello di città composta da grossi contenitori dove assemblare la popolazione in spazi strettamente essenziali. Blocchi geometrici a stecche ripetute per rappresentare l’egualitarismo, con le forme irrigidite della prefabbricazione pesante secondo il mito dell’economia di scala, prive di negozi individuali per il rigetto del sistema di mercato, senza alcuna concessione all’estetica considerata pregiudizio borghese, senza elementi di identificazione secondo l’ideologia del collettivismo.
Questi principi furono rigorosamente applicati nei nuovi quartieri dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti.
Ad applicare questi principi in Italia ha provveduto una lobby di urbanisti che, omologatasi al PCI nel primo dopoguerra quando spirava forte il vento dell’ideologia marxista, nell’insipienza delle altre parti politiche, ha preso il potere di questo settore nelle università, nelle istituzioni culturali, nell’editoria, nei rapporti con lo Stato e con gli Enti locali, e da allora ha dominato in modo totalizzante nella teoria e ha avuto il monopolio nella prassi dell’urbanistica a tutti i livelli, nazionale, regionale e comunale.
Così, attraverso i Piani Regolatori e le relative Norme di Attuazione comunali, totalmente gestiti dall’urbanistica dominante, sono stati imposti in Italia i principi del collettivismo, con qualche attenuazione e digressione dovute alle resistenze della realtà economica e sociale, determinando comunque gli squallidi e desolanti risultati delle parti urbane costruite dopo il 1945.
Il modello marxista è stato, invece, rigorosamente applicato nei “Villaggi Popolari”, dove gli urbanisti della sinistra hanno potuto gestire, senza inframmettenze, l’intero processo costruttivo, dalla struttura urbanistica al progetto edilizio, determinando i risultati più infami. Di essi, valga per tutti richiamare lo ZEN di Palermo, progettato da uno dei loro più famosi campioni.
Pier Lodovico Rupi
LA RISPOSTA (riceviamo e pubblichiamo)
Non sarà che la CITTA' MARXISTA evocata dall' autore del saggio breve "La città marxista", è la CITTA' DEL CAPITALE ? a livello economico finanziario, sicuramente. sul piano culturale, disciplinare, anche formale, è vero che l' UNIONE SOVIETICA a metà degli anni venti accetta il modello economico-energetico occidentale, ma la questione è complessissima : c'è una città socialista basata sulla gratuità degli alloggi, sui servizi alle persone ecc. che ha poco a che spartire con la città occidentale, almeno sul piano delle intenzioni.
In ogni caso, pur dovendosi accettare la critica all' UNione sovietica per aver accettato il modello eurocentrico e capitalistico della città, vale a dire per non aver sviluppato una città altra, mi pare francamente un pò forzato descrivere il passaggio dalla città medioevale e rinascimentale e dalla città della prima industrializzazione (tutte fra loro molto diverse, seppure con alcune permanenze), alla metropoli informatico nucleare inceneritorista, come città marxista.
E' giusto semplificare la complessità, ma bisogna stare attenti a tagliare.
fabrizio bertini
Non sarà che la CITTA' MARXISTA evocata dall' autore del saggio breve "La città marxista", è la CITTA' DEL CAPITALE ? a livello economico finanziario, sicuramente. sul piano culturale, disciplinare, anche formale, è vero che l' UNIONE SOVIETICA a metà degli anni venti accetta il modello economico-energetico occidentale, ma la questione è complessissima : c'è una città socialista basata sulla gratuità degli alloggi, sui servizi alle persone ecc. che ha poco a che spartire con la città occidentale, almeno sul piano delle intenzioni.
RispondiEliminaIn ogni caso, pur dovendosi accettare la critica all' UNione sovietica per aver accettato il modello eurocentrico e capitalistico della città, vale a dire per non aver sviluppato una città altra, mi pare francamente un pò forzato descrivere il passaggio dalla città medioevale e rinascimentale e dalla città della prima industrializzazione (tutte fra loro molto diverse, seppure con alcune permanenze), alla metropoli informatico nucleare inceneritorista, come città marxista.
E' giusto semplificare la complessità, ma bisogna stare attenti a tagliare.
fabrizio bertini